Il Covid-19 ed il safety-first, che stanno minando alle basi il modello economico occidentale, hanno già riproposto e stanno riproponendo con forza il tema del bene comune, sia esso direttamente connesso alla salute pubblica, sia indirettamente, lato sensu, connesso alla più estesa categoria delle risorse comuni. Un tema, come vedremo, non più al centro del dibattito scientifico, ma utile a comprendere i vari risvolti teorico-pratici che ad esso sono legati (o forse sarebbe più opportuno precisare, legati all’incapacità di definire ciò che è “bene comune” e come proteggerlo e preservarlo dagli interessi di parte, siano essi legittimi o parzialmente legittimi e non ultimo se la salute pubblica è o non è una risorsa comune).

Riproporre la questione del bene comune può apparire un’operazione per così dire divisiva, oggi, alla luce dei fatti di cronaca. Eppure, può essere un modo per affrontare l’attualità in un’ottica di co-costruzione di un nuovo paradigma esistenziale. Vediamo cosa ci dice la ricerca scientifica al riguardo.

Ogni individuo trascorre la sua esistenza circondato da risorse che condivide e sfrutta insieme ad altri esseri umani, ad esempio: acqua, atmosfera, parcheggi in città, le reti di internet ecc., la cui fruizione presenta una difficoltà di esclusione e la conseguente riduzione di estensione di utilizzo. In questo caso siamo in presenza di beni denominati: Risorse comuni o Commons. La letteratura riguardante le risorse comuni (in inglese: Common-Pool Resorces, CPRs) include ambiti tra loro eterogenei: dai Commons alpini a quelli urbani, dalle situazioni agricolo-pastorali tradizionali ai problemi legati all’utilizzazione di internet, dalle micro-situazioni locali alle risorse globali. La base comune non riguarda quindi il campo specifico di applicazione quanto l’uso di modelli di riferimento coerenti racchiudibili in uno schema generale costituito dalla “teoria dei Commons”.

DEFINIRE I COMMONS

Poiché non è possibile escludere alcun attore dal loro consumo, le risorse comuni non possono essere considerate beni privati; né tuttavia possono rientrare nella categoria dei beni pubblici, in quanto la loro utilizzazione è per definizione destinata a tutti gli attori interessati. Si tratta quindi di un concetto che condivide alcune caratteristiche di entrambi tipi di beni (privati e pubblici). Ostrom nel 1990 ne traccia una definizione: le risorse comuni si riferiscono a ogni risorsa, naturale o artificiale, sfruttata in comune da più utilizzatori, dove i processi di esclusione dall’uso dei potenziali beneficiari sono difficili e/o costosi, anche se non necessariamente impossibili. Per utilizzatori (appropriators) intendiamo il gruppo di attori che hanno accesso alle risorse comuni e per utilizzazione (appropriation) il processo di sottrazione da esse di determinate unità di valore. Quindi, l’espressione “risorse comuni” si riferisce a sistemi di risorse che sono: 1) sottraibili, 2) sfruttate in comune 3) con problemi di definizione secondo un’ottica istituzionale di tipo tradizionale. Le risorse comuni sono un genere particolare di beni che presentano caratteristiche distintive classificabili in 4 categorie, costruite tramite l’incrocio di 2 variabili (a cui abbiamo già precedentemente accennato): l’escludibilità e la sottraibilità.

Proseguendo nella nostra analisi, le risorse comuni si distinguono dai beni pubblici in quanto quest’ultimi per definizione sono “non escludibili” e “non sottraibili”. Al polo opposto dei beni pubblici troviamo, ovviamente, i beni privati. In una posizione intermedia vi sono poi i così detti “beni di club” (toll goods) caratterizzati a loro volta da bassa sottraibilità e da facilità di esclusione. Un altro esempio di posizione intermedia è dato proprio dalle risorse comuni con difficoltà di “esclusione alta” e “sottraibilità elevata”. Le risorse comuni possiedono dunque, caratteri simili ai beni privati per quanto riguarda la concorrenza nel consumo e ai beni pubblici per quanto riguarda la difficoltà di escludere degli attori dalla loro fruizione: esse condividono con i primi i problemi legati alla loro utilizzazione (appropriation problem) e con i secondi i problemi connessi alla loro fornitura o manutenzione. Poiché, tale definizione è parallela a quella di “sviluppo sostenibile” (dove per sviluppo sostenibile s’intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente, senza compromettere le capacità di generazioni future di soddisfare i propri) fornita nel rapporto Brundtland del 1988, è possibile anche utilizzare l’espressione “sfruttamento sostenibile” di una risorsa per intendere dei livelli di prelievo tali da non comprometterne future utilizzazioni. In termini economici, significa: stabilire un livello di prelievo individualmente efficiente che tenga conto delle esternalità positive e negative e del tasso di rigenerazione esistente (vale a dire il tasso di sfruttamento ottimale di una risorsa non rinnovabile). Aspetti importanti sono dunque legati anche al mantenimento/fornitura (provision problem) di un bene pubblico assunto dalla risorsa comune, esempi di questo genere possono essere la manutenzione di sistemi di irrigazione, la depurazione delle acque di un fiume o di un lago o l’effettuazione dei controlli di una stabilità di un ponte.

Nel caso di un bene pubblico quindi, è sovente difficile, se non impossibile, escludere i non contribuenti dal beneficio di una risorsa (un canale di irrigazione riparato, trasporterà più acqua a tutti i suoi utenti anche se una parte di loro non ha contribuito alle spese di manutenzione) e questo pone dei tipici dilemmi di azione collettiva. Altra importante classificazione delle risorse comuni, è quella secondo la quale esse si dividono in naturali ed artificiali. Occorre però dire che le risorse comuni naturali ed artificiali, possono convivere ed interagire nella medesima area: è proprio l’esempio del canale di irrigazione (risorsa comune artificiale) che trasporta e distribuisce l’acqua (risorsa comune naturale). Insieme, costituiscono un common complesso, le cui relative problematiche sul versante della sua utilizzazione si concentrano sulla risorsa naturale, mentre quelle della sua fornitura e manutenzione riguardano la risorsa artificiale. Altro elemento fondamentale è la suddivisione delle risorse comuni in non rinnovabili e rinnovabili (distinzione difficile da applicare ovviamente in un contesto di risorse artificiali, la cui rigenerazione è comunque opera dell’uomo, in tale contesto assumono maggiore importanza fattori quali la disponibilità di capitali o la suddivisione/organizzazione dei compiti di fornitura).

LA TRAGEDIA DEI COMMONS

Garrett Hardin con il suo articolo “The Tragedy of the Commons” del 1968, segna il punto di partenza del dibattito contemporaneo sulla crescita incontrollata della popolazione umana rispetto alle risorse terrestri, presentandola come “tragedia della libertà in una proprietà comune”.

Il biologo delinea un modello rappresentativo come metafora del problema, descrivendo un pascolo di libero accesso utilizzato contemporaneamente da più attori. Razionalmente, ciascuno di essi aumenterà il numero dei propri animali fino a quando il prodotto marginale di un ulteriore incremento del gregge non sarà equilibrato dal suo costo marginale. Ciascun attore, avrà quindi interesse ad accrescere il proprio gregge al di sopra di un livello collettivamente efficiente, con gravi conseguenze fino ad arrivare al limite della distruzione del Common (della proprietà comune).

Per Hardin, il modello, come abbiamo già evidenziato, costituisce una metafora della sovrappopolazione mondiale, dove la libertà è essenzialmente libertà di incrementare senza limiti il numero di essere umani presenti sulla terra. “(…) Ciascun umano perseguendo i propri interessi individuali, corre verso la propria rovina. La libertà in una proprietà comune porta quindi alla rovina per tutti” (Hardin 1970, 20).

GOVERNARE I COMMONS

Per Hardin, gli attori sono incapaci di risolvere autonomamente i propri problemi di gestione della risorsa comune, per cui vi è la necessità assoluta di un’autorità in grado di riscuotere il consenso della maggioranza dei partecipanti attraverso strumenti coercitivi tesi a ristabilire il beneficio collettivo.

Per Elinor Ostrom, le soluzioni individuate da Hardin (la soluzione statalista vs la soluzione privatista) non rappresentano le reali soluzioni del problema: in quanto la necessità di disponibilità di accurata informazione, elevate capacità di monitoraggio, affidabilità del sanzionamento dei trasgressori ed i bassi costi amministrativi, sono tutte condizioni che evidentemente non sono facili da perseguire. Mentre, la seconda (la soluzione privatista) non è anch’essa in grado di superare il problema dell’informazione, in particolare al riguardo degli effetti generati dai comportamenti adottati. Si può infatti verificare che la possibilità della distruzione volontaria della risorsa nel caso di attori dagli elevati tassi di svalutazione nel tempo, possono al fine giudicare più conveniente uno sfruttamento eccessivo nel breve periodo, a scapito delle possibilità di beneficio futuro. Inoltre, per definizione molte risorse naturali sono difficilmente privatizzabili (come ad esempio gli oceani, l’atmosfera ecc..).

In “Governing the Commons” del 1990, Ostrom partendo dallo studio di casi empirici, mette in discussione soprattutto l’idea che possono esistere dei modelli applicabili universalmente. Esistono – sono sempre storicamente esistite – singole comunità che sono riuscite localmente a evitare conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su di una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni. In effetti, il modello di Hardin appare realmente incompleto perché non tiene conto del fatto che gli attori possono impegnarsi a seguire una strategia collaborativa e, per rendere credibile il loro impegno, costituire un’istituzione in grado di monitorare e sanzionare i trasgressori delle regole da loro stessi formulate.

La sanzione (formale o informale che sia) si suppone venga applicata ogni qualvolta un attore viene meno al suo impegno di cooperazione, che nella formula seguente viene formalizzato tramite un delta che modifica i risultati ottenibili in caso di defezione. Se il delta è sufficientemente elevato da soddisfare contemporaneamente le condizioni Δ > a – b e Δ > c – d, la strategia dominante diventa C (maiuscolo) per entrambi i giocatori e lo sfruttamento della risorsa può essere sostenibile. L’uso del delta permette di descrivere all’interno di una struttura teorica formalizzata, il comportamento di individui che considerano anche costi e benefici non necessariamente materiali. I pastori che utilizzano una risorsa comune per i loro animali in una situazione dove esiste un’istituzione deputata al controllo della gestione del pascolo comune, non sono più costretti a giocare un dilemma del prigioniero l’uno contro l’altro, ma, grazie alla possibilità di accordarsi su livelli sostenibili di sfruttamento e di controllare le eventuali trasgressioni, si trovano all’interno di un problema la cui risoluzione non esclude una strategia cooperativa. Ne è un esempio l’uso di pascoli comuni delle Alpi, testimoniato tra gli altri dai lavori di Netting (1981). In questo caso, gli innumerevoli regolamenti di alpeggio esistenti nella tradizione della maggior parte dei pascoli comuni delle Alpi, ha permesso un’utilizzazione razionale e sostenibile per secoli di tali Commons.

FATTORI CRITICI

È in dubbio che lo sviluppo di istituzioni endogene atte alla gestione del Common non rappresentano la soluzione al dilemma di Hardin. In effetti, anche se la ricerca empirica ha messo in evidenza la concreta possibilità che gli utilizzatori di una risorsa comune si possano accordare per un suo sfruttamento sostenibile, questo può avvenire non in tutti i casi e comunque con gradi di successo diversi. Lo stesso processo di innovazione istituzionale ha determinato una pratica di incentivazione via via maggiore per garantire l’uso durevole nel tempo della risorsa comune, generando nel contempo anche una maggior unione nel perseguire regole di comportamento corrette, riguardo prelievi della risorsa comune (appropriation problem), contributi (prevision problem) e sistemi di monitoraggio e di sanzionamento efficaci per controllare e disincentivare i trasgressori. Un percorso complesso che richiede tempi medio-lunghi ed una capacità di adattamento al contesto ambientale e sociale non banale. Tutto questo determina un percorso fatto di tentativi, di errori, di correzioni di rotta fino a raggiungere un equilibrio sostenibile nella gestione delle risorse comuni.

Altra considerazione da fare al netto delle precedenti considerazioni, sono i costi molto alti che comportano simili transizioni, sovente particolarmente ostativi per diverse popolazioni. Dato comunque che le ricerche empiriche dimostrano – contro le predizioni teoriche – che le comunità possono e quindi sono in grado di risolvere i propri dilemmi sociali, anche senza ricorrere ad autorità esterne o senza snaturare il carattere collettivo della risorsa, occorre tuttavia spostare il focus dell’analisi verso lo studio delle condizioni in grado di favorire o meno tale processo. I modelli elaborati mostrano come gli attori siano influenzati nella loro azione sia dalle norme, sia dalle relazioni stabilite, intraprendendo processi di azione collettiva e superando una condizione di passività nella ricerca di mondi migliori. Per far fronte a questi ed altri problemi posti dalla ricerca empirica, la ricerca sulla gestione di risorse comuni utilizza un quadro concettuale denominato: IAD framework (Institutional Analysis and Development framework), che altro non è che una sorta di mappa concettuale a livelli multipli, usata per l’analisi comparativa tra le istituzioni e per lo studio del cambiamento istituzionale. Il contributo maggiore fornito, è un linguaggio comune per tutti, sia a livello linguistico, sia a livello transdisciplinare. Lo IAD framework suddivide l’analisi in 3 componenti principali:

  • Action Arena: costituita dagli attori al cui interno si sviluppano e si muovono le relazioni/interazioni. Nell’arena agiscono contemporaneamente fattori di origine fisica, sociale e normativa.
  • Gli attributi fisici: formano il contesto ambientale (naturale o artificiale) all’interno del quale si muovono gli attori e rispetto al quale le loro azioni acquistano un significato pratico. Assumono infatti una certa importanza i tratti relativi al numero degli utilizzatori, alle loro capacità di consumo della risorsa e le caratteristiche stesse di sfruttamento (vale a dire la salute della risorsa rispetto ai prelievi, le sue dimensioni, le sue variazioni naturali e non ultime le informazioni relative al suo stato e agli effetti della sua utilizzazione).
  • Criteri di valutazione e modalità di interazione: tanto più l’effetto di utilizzazione della risorsa produce i cambiamenti prevedibili, tanto più la gestione autoregolata ha probabilità di successo e questo allontana il rischio che un suo rapido degrado possa spingere gli attori a comportamenti di accaparramento nell’immediato. Tra i fattori socioeconomici analizzati all’interno dello IAD framework vi sono anche i caratteri sociali e culturali delle comunità di riferimento, il grado di dipendenza degli utilizzatori della risorsa stessa, l’esistenza di una comprensione comune del problema, l’eterogeneità etnica e culturale, la presenza di fiducia reciproca, le possibilità di sanzionamento e le esperienze organizzative precedenti. Certo è che l’incremento della gestione sostenibile delle risorse comuni cresce in modo direttamente proporzionale al crescere della coesione delle relazioni sociali. Quest’ultimo ambiente, conduce ad una riflessione sui principi costitutivi (design principles) sostanzialmente da rispettare. I quali non descrivono in sé alcuna regola particolare, in quanto variano di caso in caso, adattandosi alle condizioni locali.

Essi ne delineano in pratica la struttura istituzionale nel suo complesso:

  1. Confini chiaramente definiti: i confini fisici ed ecologici devono essere definiti con precisione, così come il gruppo di proprietari legato alla sua utilizzazione.
  2. Congruenza tra regole di sfruttamento e mantenimento e le condizioni locali: (dimensioni del prelievo, tecnologie utilizzabili, mantenimento ecc.).
  3. Disposizione di scelta collettiva: vale a dire il corpus di conoscenze pratiche necessarie all’applicazione delle regole applicative.
  4. Monitoraggio: esercitato da responsabili in nome e per conto del gruppo dei proprietari. La fase di monitoraggio è essenziale e consustanziale ad un corretto sfruttamento delle risorse
  5. Sanzionamento progressivo: ovviamente credibile per rispetto delle regole e progressivo nella distinzione tra violazioni occasionali involontarie, di lieve entità e sistematiche (vale a dire che minano le relazioni di fiducia e reciprocità degli utilizzatori).
  6. Meccanismi di risoluzione dei conflitti: tanto più importante per la riduzione dei costi indotti dagli stessi, e per gli effetti disgreganti del gruppo degli utilizzatori.
  7. Minimo riconoscimento di auto-organizzarsi, tale da escludere il ricorso di autorità esterne.
  8. Attività organizzate su diversi livelli, o livelli molteplici e successivi, in modo che ciascun problema possa essere affrontato nel modo più opportuno.

Il rispetto di tali principi costitutivi determina un incremento sostanziale delle probabilità di successo nella gestione delle risorse comuni e pertanto essi rappresentano uno strumento utile sia in fase di analisi scientifica di casi empirici, sia nell’elaborazione di policies mirate.

LA RICERCA SCIENTIFICA

La ricerca sul tema è caratterizzata da una spiccata interdisciplinarietà (i contributi arrivano dalle discipline più disparate: scienze politiche, economia, antropologia e sociologia, agronomia, biologia e scienze naturali, nonché da contributi di operatori legati alle organizzazioni non governative e da enti nazionali ed internazionali per lo sviluppo).

Occorre inoltre dire che l’Europa in questo contesto svolge un ruolo secondario, più che marginale, dimostrando un fievole interesse per il tema delle risorse comuni, al contrario dei paesi meno sviluppati e dei Paesi nordamericani, senz’altro più attivi.

Uno dei limiti più evidenti riguardo alla ricerca empirica nell’ambito delle risorse comuni è quello di non affrontare compiutamente il tema delle risorse su scala maggiore concentrandosi su risorse comuni di tipo tradizionale, e questo è dovuto soprattutto agli interessi legati allo sviluppo dei paesi del Sud del mondo. È certo che lo studio dei nuovi Commons urbani costituiscono, inoltre, un ambito di sicuro interesse applicativo: problemi quali parcheggi, uso delle infrastrutture stradali, gestione delle acque per uso domestico ed industriale, inquinamento dell’atmosfera, smaltimento dei rifiuti ecc… sono in effetti i temi di maggior attualità nelle società più sviluppate che offrono nuove opportunità di analisi e di modellizzazione ancora tutte da esplorare.

QUALI SVILUPPI PER LA TEORIA DEI COMMONS

Abbiamo potuto vedere come in base al modello dei pastori di Hardin gli attori razionali ed egoisticamente motivati non sono in grado di trovare soluzioni cooperative al dilemma posto dalla gestione di una risorsa comune. Problema solo mitigato dall’intervento istituzionale, il quale perseguendo lo schema dato dall’IAD framework, in determinate situazioni, gli attori possono essere incentivati alla cooperazione e al superamento dei problemi di azione collettiva in funzione di una gestione autonoma e sostenibile delle proprie risorse comuni.

L’approfondimento dell’analisi dei fattori in grado di influire sul raggiungimento di tale risultato è quindi la sfida con la quale la ricerca teorica si dovrà maggiormente confrontare. Uno degli ambiti più significativi oggi studiati riguarda i cosiddetti Commons globali, soprattutto oceanici, atmosferici e legati a fattori quali i cambiamenti climatici dovuti all’azione antropica. In questo caso l’assenza di autorità esterne, nonché l’impossibilità di ricorrere ad ipotesi di privatizzazione sono ovviamente irrealistiche di conseguenza l’approccio metodologico che più presenta difficoltà di applicazione riguarda la scala intermedia – regionale subnazionale o nazionale – dove si ha una perdita di accuratezza teorica. Un ulteriore limite raggiunto dalla teoria dei Commons riguarda il suo versante sociologico-antropologico. Una maggiore analisi di fattori di origine sociale sono stati effettuati negli ultimi anni sia all’interno degli IAD framework sia grazie all’utilizzazione del concetto di capitale sociale sviluppato da Coleman (1990). Altri sviluppi teorici si sono dimostrati estremamente produttivi come nel caso di Ostrom, il quale ha introdotto nell’analisi teorica dei modelli il ruolo degli attori diversi in una prospettiva evolutiva. Ci si augura che lo studio teorico-empirico riguardante il tema delle risorse comuni possa ritornare al centro della ricerca sia in Italia che in Europa.

IL CASO DEI GLOBAL CLIMATE CHANGE

Nel 1968 Garrett Harding ha presentato al mondo un punto di vista molto accattivante del problema della popolazione mondiale, spostando il focus dell’attenzione sul fatto che il mondo ha risorse limitate che devono essere gestite con attenzione, poiché controvertere l’equilibrio dell’ecosistema con la predazione sistematica delle sue risorse non potrebbe che far implodere il sistema stesso e con esso non solo il modo in cui viviamo, ma la nostra stessa esistenza.

Il problema non ha soluzione, se non partiamo dalla considerazione che “in un mondo finito questo significa che la quota pro capite dei beni del mondo deve diminuire” (Hardin, 1968), poiché la sovrappopolazione è diventata un peso che tutta l’umanità deve accettare e comprendere. E questo si poneva chiaramente in antitesi sul fatto che storicamente (e istituzionalmente) abbiamo sempre in ultima analisi riposto le nostre speranze sulla tecnologia come demiurgica soluzione al problema della mancanza di risorse e del loro relativo comune sfruttamento (inteso come rifiuto inconscio del problema in funzione di una crescita incondizionata, sinonimo di potenza, di dominio e di prevaricazione… uno dei temi portanti delle cause scatenanti il Covid-19)).

Hardin, usa la teoria della scelta razionale per illustrare la natura avida dell’uomo e i maggiori problemi che ha causato nel tempo. È un ragionamento tutto interno ad una sorta di “pessimismo cosmico” di leopardiana memoria? Una nuova ed ulteriore deriva hobbesiana? Può una presa di coscienza istituzionale – ovviamente a carattere sovranazionale – indipendente da logiche opportunistiche, guidare e non imporre lo studio di soluzioni artefatte, parziali? Mi sembra di ritornare entro il cerchio inscritto delle vecchie contrapposizioni Nord-Sud ed Est-Ovest, che sembra tornare in auge, frutto della crisi del sistema economico mondiale, accelerato dalla globalizzazione e da logiche finanziarie che mal si sposano con le esigenze dell’economia reale. In un simile contesto sociale e culturale, può la ricerca delineare nuovi orizzonti possibili? Ne dubito fortemente. In specie se abbandonata a se stessa.

Un esempio? Il caso specifico, drammaticamente attuale, del “Global climate change” e il fenomeno Greta Thunberg, la giovane attivista svedese finita al centro del dibattito mediatico a causa del suo impegno a favore della lotta al cambiamento climatico. Un caso che dice molto sulla stagione politica che stanno vivendo le democrazie occidentali.

Dopo essere balzata agli onori della cronaca internazionale a seguito della partecipazione alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2018 (COP24) e al Forum economico mondiale di Davos, la sedicenne è finita al centro di un turbinio mediatico fatto di insulti e insinuazioni, che è arrivato a nutrirsi persino della sindrome di Asperger, da cui la giovane è affetta. Rimanere lucidi di fronte a tanta ferocia, reprimere il desiderio di restituire al mittente l’odio riversato sull’adolescente è difficile ma necessario, per interrompere il circolo vizioso che alimenta la violenza e l’inconcludenza del dibattito pubblico. Cinquanta anni fa, quando a parlare dei rischi del riscaldamento globale di origine antropica era un pugno di scienziati poco meno che eretici per la comunità scientifica, le parole della giovane attivista svedese avrebbero avuto un valore rivoluzionario. Oggi, però, la situazione è diversa. Il tema è entrato stabilmente nel dibattito pubblico; le evidenze scientifiche sull’origine antropogenica del fenomeno appaiono oramai schiaccianti; la comunità scientifica ha elaborato modelli di rischio sempre più dettagliati; le istituzioni hanno elaborato i primi piani di contrasto al fenomeno.

Le parole della giovane attivista, perciò, diventano un paravento dietro cui nascondere un groviglio di interessi contrapposti e ipocrisia che è più facile ignorare che dipanare. Le politiche di contenimento della temperatura, tanto per cominciare, hanno un costo: a seconda delle stime e degli scenari, tra 50.000 e 120.000 miliardi di dollari. Chi paga? La domanda può essere declinata sotto diverse prospettive:

  • pagano gli Stati, che inevitabilmente sono i principali portatori d’interesse, o paga il mercato, accusato da più parti di aver alimentato irresponsabilmente il fenomeno?
  • pagano le economie avanzate, che negli ultimi 150 anni hanno prodotto l’80% delle emissioni di natura antropica o pagano le economie in via di sviluppo, che trainano le emissioni attuali?
  • pagano i consumatori, che consumano, o pagano le imprese, che producono?

Durante i due mandati Obama, gli Stati Uniti sono diventati il capofila della lotta al cambiamento climatico. Le politiche dell’Amministrazione hanno prodotto un taglio strutturale delle emissioni di CO2 di quasi un miliardo di tonnellate l’anno. Il governo federale è riuscito a centrare un obiettivo così ambizioso incentivando la transizione nel settore termoelettrico da un combustibile fossile ad alto contenuto di CO2 (il carbone) a uno con minore contenuto di anidride carbonica (il gas naturale), investendo nella riqualificazione industriale e nelle reti intelligenti. Un approccio progressivo, concettualmente molto distante dai richiami della giovane attivista a “lasciare i combustibili fossili sotto terra” che, però, ha permesso all’Amministrazione di far convergere sulle sue posizioni il mondo accademico, l’industria high-tech, i mezzi d’informazione; poli di attrazione che hanno permesso a Obama di superare l’ostilità dei Repubblicani.

Tuttavia, i paletti imposti dall’Enviromental Protection Agency (EPA) hanno accentuato la deindustrializzazione del tessuto produttivo americano, in particolare in quelle regioni in cui l’industria pesante è il perno dell’economia locale. La chiusura degli impianti ha provocato un’emorragia di posti di lavoro, particolarmente marcata nel settore minerario, in quello siderurgico e nella manifattura energy-intensive, che a sua volta ha alimentato lo spopolamento e il degrado sociale. Dietro alle statistiche sbandierate dall’Amministrazione – che fotografano un saldo positivo in termini di reddito e posti di lavoro nel percorso di riduzione delle emissioni e di riconversione industriale – si nasconde un quadro più complesso e frastagliato, fatto di vincitori e vinti. Un quadro che ha fatto da sfondo all’ascesa di Trump, il quale ha ribaltato completamente il paradigma…

Se il caso americano è già di per sé eloquente, quello francese è illuminante. Il Movimento dei Gilet Gialli, infatti, è nato come reazione all’aumento del costo dei carburanti, deciso dalle autorità francesi nel quadro della de-carbonizzazione dell’economia nazionale. Anche in questo caso, la reazione popolare non è stata innescata da un rifiuto ideologico nei confronti del cambiamento climatico ma dalle ricadute economiche e sociali delle misure adottate dalle autorità francesi per combatterlo. Nel corso degli ultimi anni il prezzo del diesel in Francia è costantemente aumentato a dispetto delle fluttuazioni del prezzo del barile. I rincari hanno colpito in particolare i pendolari e l’economia agricola che, a causa della crescente meccanizzazione, è sempre più dipendente dal gasolio agricolo. Quindi, ancora una volta, un’onda che monta dal basso.

Nelle piazze francesi, però, al contrario che nei distretti industriali americani, il tema dell’aumento delle accise si è immediatamente fuso con altri temi: il contrasto alle disuguaglianze economiche, la riaffermazione della sovranità popolare, l’aumento dei salari minimi. Tematiche che, al netto di semplificazioni populiste o di eventuali influenze esterne, hanno una chiara matrice socialista. Il caso americano, e ancor più quello francese, dimostrano perciò come la lotta al cambiamento climatico rischi di venire assimilata a quell’attacco concentrico alle classi subalterne di cui, quantomeno nell’immaginario popolare, già fanno parte la globalizzazione, la gestione di fenomeni migratori, l’economia della conoscenza.

Nessuno (men che meno le istituzioni politiche) si preoccupa di ciò che è il bene sociale più grande, ogni individuo crede di compiere una scelta razionale e fa ciò che è di maggior beneficio per se stesso non sapendo che il beneficio è drammaticamente sempre più temporaneo. Il Covid-19 ha risollevato con forza il tema! La salute pubblica è o non è una risorsa comune? Si può gestire razionalmente all’interno di uno schema collaborativo in un simile contesto sociale ed economico?

Alessandro Baccani | @aneway | #ChiefHappinessOfficer, #BusinessInnovationDesigner, #SystemsThinker