I responsabili marketing passano più tempo a sbrigare questioni operative che a pianificare e gestire strategie: lo rivela l’indagine Accenture ”Content: The H2O of Marketing“, secondo cui è ben poco virtuoso il rapporto fra contenuto e strategie di marketing nelle imprese. Il 63% dei manager lamenta il poco tempo per le attività fondamentali di marketing e branding, il 70% stima tale trend in crescita. Questo atteggiamento si riflette sul modo in cui le imprese misurano l’efficacia dei contenuti: solo il 10% dei professionisti italiani ne analizza l’impatto sul customer lifetime value, utilizzando dati come i costi di esercizio o la durata del ciclo e time-to-market. Il contenuto è fondamentale per il marketing. E’ letteralmente la linfa vitale della comunicazione, che stimola l’engagement e supporta le vendite.

Ironicamente, oggi la crescita esponenziale dei contenuti digitali potrebbe diventare il principale ostacolo alla capacità del marketing di trarne valore. Di fatto, la quantità di contenuti digitali sul mercato conosce un vero e proprio boom: il 96% degli intervistati italiani gestisce oggi più contenuti digitali di due anni fa, il 69% prevede che il volume aumenterà ulteriormente nei prossimi 24 mesi, il 49% dispone di più contenuti di quanti la propria società sia in grado di gestire.

Le società di marketing investono massicciamente nei contenuti: il 77% degli intervistati lo conferma, ma solo il 35% è anche abbastanza sicuro che questi investimenti permetteranno di raggiungere gli obiettivi aziendali. Tra i diversi ostacoli, ecco i tre identificati come barriere principali: mancanza di specializzazione, carenza di tecnologia, problemi generali legati ai processi. Il 67% dei direttori marketing ritiene necessario un migliore allineamento con l’IT, in quanto oggi più che mai il marketing si affida alla tecnologia. Fra i dati rilevanti dell’indagine: è limitata al 6% la percentuale di imprese che gestisce i contenuti in maniera completamente centralizzata, a cui si aggiunge il 27% secondo cui l’organizzazione sarà completamente centralizzata tra due anni.

I contenuti sono un asset strategico per tutta l’azienda e non di competenza esclusiva del marketing o dell’IT: serve predisporre strategie di ampio respiro, gestire i dati in modo centralizzato, integrare personale con competenze specifiche, investire in tecnologie. Social Media, Video, App, Blog, Marketing Automation… Internet moltiplica esponenzialmente le possibilità di raggiungere i clienti, aumentare la visibilità dell’azienda e l’awareness generata dal passaparola. Il web è un mercato potenziale enorme, occorre puntare a “convertire” in azioni pre-determinate la comunicazione online effettuata se desideriamo avere un riscontro efficace in termini di business. Elemento imprescindibile del successo di ogni iniziativa sul web è dunque la pianificazione di una content strategy estremamente attenta nell’individuazione delle tematiche chiave da sviluppare e in linea con gli obiettivi marketing dell’azienda.

Lo scopo su cui si basa ogni strategia di fondo è essenzialmente questo: creare una sorta di “nuovo” accesso al brand dal web, che ha precise regole di formato, precise regole di efficacia e veicola strumenti e prodotti narrativi costruiti intorno ad un pubblico e non “mirato ad un target”, non nell’accezione tradizionale del termine almeno. Oggi la ricerca di un’identità distintiva non è più un percorso, ma una schizofrenia esistenziale (adesso sono un professionista e al contempo un blogger, uno sportivo, un sommelier, un massaggiatore ayurvedico…). Quello che un tempo era un target oggi è una categoria da sezionare in base a bisogni narrativi contingenti e per ogni sezione bisogna innestare un diverso prodotto narrativo.

Storicamente il branding è stato trattato come un processo tutto interno all’impresa. L’impresa, dopo una accurata analisi del mercato, definiva il proprio posizionamento strategico/valoriale e costruiva un piano di marketing finalizzato ad andare ad occupare tale spazio nella “testa” del consumatore. Il consumatore, all’interno di questo processo, svolgeva un ruolo passivo. Il brand, in questa prospettiva, non rappresentava altro che un layer di servizio a supporto del prodotto. Un qualcosa di preconfezionato, che il consumatore acquistava e pagava insieme al prodotto. Lo sviluppo del web ha rovesciato i termini di questo gioco. Prima di tutto, il branding è un processo largamente esterno all’impresa. Un processo quindi che l’impresa può solo tentare di governare, ma non gestire e controllare. I motivi sono principalmente due:

il primo è il cambiamento in corso nei comportamenti di consumo. Il consumo è sempre meno motivato da fattori di status e sempre più da ragioni identitarie. Questo significa che io acquisto un prodotto e/o servizio per dimostrare ciò che veramente sono e ciò in cui credo piuttosto che la classe sociale a cui vorrei appartenere. Il brand, perciò, perde la sua funzione primaria di marcare una differenza ed un territorio socio-cognitivo, per divenire strumento attraverso cui costruiamo relazioni con chi come noi si identifica con certi valori etico-morali. Questo implica che, indipendentemente dalla rete, larga parte del processo di costruzione e comunicazione dei significati di un brand resta al di fuori del controllo dell’impresa. L’unica cosa che può fare l’impresa è tentare di dare un imprinting forte al proprio brand al fine di selezionare, sia al proprio interno, dipendenti, fornitori e così via, che al proprio esterno, persone che si identifichino con il sistema di valori che l’impresa condivide e si propone di promuovere e diffondere. Molti di questi spazi sono pubblici. È solo associandosi e promuovendo questi valori che le imprese possono sostenere – indirettamente – il valore dei propri investimenti in questa direzione.

In secondo luogo, la rete riduce i costi di ricerca, accesso e condivisione dell’informazione. Il passa parola, come molte ricerche dimostrano, è il principale mezzo attraverso cui le persone co-costruiscono il significato ed il valore del brand. La rete, da questo punto di vista, non ha fatto altro che moltiplicare all’ennesima potenza ciò che è sempre avvenuto nei contesti locali. È per questa ragione che diventa sempre più difficile vendere lo stesso brand in modi diversi – e a volte incompatibili tra loro – in mercati diversi. L’informazione circola ed è condivisa su di una dimensione mondiale. Pensare di riuscire a compartimentalizzare la gestione del brand su singoli mercati è sempre più un’utopia. Lo stesso vale per strategie finalizzate a utilizzare brand diversi in mercati diversi per lo stesso prodotto.

In ogni caso, il ruolo strategico e moltiplicativo assunto dal passa parola obbliga le imprese ad adottare strumenti nuovi per monitorare questi flussi comunicativi e di valore. È necessario, infatti, dotarsi di sistemi di monitoraggio che siano compatibili con una architettura a rete del dialogo costitutivo e costruttivo del valore. Il processo di diffusione dell’informazione non è più gerarchico. Gli influenzatori sono molteplici e sempre diversi. Non solo. Sono difficilmente prevedibili a priori. Può accadere infatti che un consumatore, che si occupa di tutt’altro nella vita, abbia un blog molto popolare e pubblichi un post sulla scarsa qualità di una esperienza avuta con una data impresa. È probabile che questo post comunque si diffonda e raggiunga il segmento core di consumatori interessati al brand.

Non è sufficiente però dotarsi di questi strumenti di monitoraggio. È necessario cambiare anche il significato che attribuiamo al loro impiego. Questi strumenti non devono essere concepiti solo come strumenti di controllo, attraverso cui cerchiamo di cogliere le lamentale al fine di gestirle prima che si trasformino in valore negativo per la nostra impresa. Questi strumenti, diversamente, devono essere concepiti come creativi, dobbiamo utilizzarli per tentare di cogliere ed interpretare i bisogni ed i desideri emergenti ed includere il “consumatore” nel processo creativo. Sia la R&S, che il Customer Care, dovrebbero utilizzarli per entrare in relazione con chi poi compra i propri prodotti/servizi. Le considerazioni etico-valoriali stanno divenendo sempre più condizionanti nei processi di scelta dei fornitori.