Creatività e innovazione sociale*
«Ma che cos’è la creatività? Solo una parola? Un concetto unitario? Un ombrello che copre le cose più svariate… le doti dei nostri imprenditori, l’inventiva, il buon gusto, la competitività nei distretti industriali, la qualità nelle tradizioni artigianali?» (Legrenzi, 2005).
Senza innovazione e creatività il nostro mondo di ieri e di oggi non sembrerebbe più lo stesso. La sfida consiste nell’affrontare l’intreccio tra la creatività come dote dei singoli individui e l’innovazione, come fenomeno collettivo. Oggi, questi due piani vengono spesso confusi. Tradizionalmente creatività e innovazione sono stati due campi di ricerca contigui e separati. «Del primo si sono occupati gli psicologi, del secondo per lo più gli economisti» (Legrenzi, 2005). Le ricerche dell’ultimo decennio hanno fatto saltare ogni confine in un territorio che, una volta, era stato appannaggio anche degli storici della scienza, dei critici d’arte, degli esperti di formazione aziendale e di marketing.
«Come mai non si riesce ad essere un po’ più spesso creativi? Oggi più che mai siamo in condizioni di affrontare tale quesito nell’ambito di un quadro teorico unitario» (Legrenzi, 2005).
Nelle conversazioni quotidiane e sui media, l’aggettivo creativo ed il termine innovazione possono venir impiegati per riferirsi sia ad un prodotto della creatività umana, sia ai processi che ne hanno permesso la genesi. Il fascino di un prodotto, ad esempio un edificio o un disegno, può derivare non solo dalle sue caratteristiche ma dagli indizi che ci trasmette sui processi d’ideazione. I critici letterari, artistici, musicali hanno i loro criteri per valutare un’opera dell’ingegno umano. Gli scienziati sanno distinguere una soluzione creativa di un problema scientifico da quella che lo è meno. I designer, gli architetti possono parlare d’opere creative o di lavori più scolastici e tradizionali. Gli stessi tecnologi ricorrono talvolta a questa categoria per valutare i manufatti industriali. Persino i matematici parlano di dimostrazioni creative o di soluzioni ineleganti.
Tutti questi esperti si rifanno ai loro saperi per classificare un prodotto umano come più o meno creativo, innovativo, riuscito, rispetto ad un altro, progettato per scopi analoghi o per svolgere le stesse funzioni.«La scoperta scientifica non ammette repliche, solo conferme. La creatività artistica ispira la replica, ciò che unifica i due campi è la necessità di un creatore» (Legrenzi, 2005). È questa una prima differenza tra creatività artistica e scientifica. Per la scienza la replica è mera conferma. Secondo Legrenzi, per gli esseri umani valgono due tipi di vincoli:
- ogni soluzione scientifica o tecnologica, qualsiasi scoperta o artefatto innovativo, sono creativi rispetto ad altri che lo sono di meno.
- Un’opera d’arte che crea una qualsiasi emozione, la ricrea ogni volta che la si incontra.
La creatività è concepita come un fenomeno circoscritto ad un ambito specifico e non come un evento soprannaturale o globale. «Non c’è creatività senza libertà» (Legrenzi, 2005) perché partendo dalle condizioni odierne, ci costringe a procedere alla rovescia, a ritroso nel tempo. Tipica forma di creatività richiesta dalla soluzione di un problema. Per poter essere creativi si deve essere liberi di scegliere.
Il merito dei comportamentisti è stato quello di definire un criterio per tracciare un confine tra le soluzioni creative di problemi e quelle non creative; i gestaltisti esplorano il territorio al di là di questo confine. «Kohker aveva dimostrato i seguenti punti: (i) non tutte le forme di apprendimento avvengono per prove ed errori; (ii) quando un animale ha uno scopo, lo può soddisfare inventando una nuova strategia; (iii) non esiste una divisione netta tra soluzioni creative e soluzioni non creative» (Legrenzi, 2005).
Non esistono in assoluto strategie creative e strategie che non lo sono
Le conseguenze dell’impostazione gestaltista sono rilevanti perché mostrano che non esistono in assoluto strategie creative e strategie che non lo sono. «La scuola ci ha abituato a considerare come prototipo della creatività le grandi invenzioni scientifiche o i capolavori artistici. E lo sono, nel senso che rappresentano prodotti dell’ingegno, dell’eccellenza creativa, del meglio di una civiltà o cultura. Ciononostante, da un punto di vista psicologico, creativo è anche chi reinventa, a sua insaputa, una soluzione (che, per altri, nuova non è più)» (Legrenzi, 2005).
La creatività consiste nel disfarsi delle vesti con cui il problema si presenta, nell’isolare le componenti e nel ricollocarle in una nuova struttura. Essere creativi significa anche risolvere un problema già confezionato, senza dover andare in cerca di ulteriori informazioni. L’operazione creativa consiste nell’isolare i pezzi d’informazione dati che sono cruciali rispetto al quesito finale. È il principio generale della ristrutturazione, come afferma Legrenzi (2005), quello su cui insistono i gestaltisti. Max Wertheimer, fu uno dei primi a teorizzare la creatività come approccio metodologico alla soluzione dei problemi. Non bisogna fermarsi alle soluzioni ovvie, utilizzando regole consuete e adagiandosi su quello che si è sempre fatto. Riflettere e cercare di trovare una soluzione inconsueta può essere altrettanto determinante ai fini del risultato atteso (la soluzione ottimale e non la soluzione in sé e per sé) rispetto alla presentazione spontanea del problema stesso.
«’Perché fa così?’ Quante volte nelle imprese o nelle organizzazioni, a questa domanda ci si sente rispondere: perché abbiamo sempre fatto così. Questa risposta non è un meccanismo di difesa, una reazione all’autorità o una domanda inquisitoria. … [Di fatto] c’è la tendenza cognitiva a ripetere le routine del passato, a fare appunto come si è sempre fatto» (Legrenzi, 2005).
Lasciandosi i lavori dei gestaltisti alle spalle, condotti tra le due guerre mondiali, dopo la Seconda Guerra Mondiale (che ha dato grande impulso alle ricerche di psicologia) la tecnologia ha fatto passi da gigante, tuttavia: «in una società di consumi di massa, il problema non è solo quello di tecnologie effettivamente nuove per i processi produttivi e i prodotti» (Legrenzi, 2005). È necessario saper implementare, sviluppare, reinventare incessantemente questi ultimi per farli sembrare nuovi, ma come inventare nuove forme, nuovi involucri, nuove apparenze per uno strumento o un oggetto noto?
Nasce il marketing e la pubblicità. Assumerà vieppiù centralità non tanto il prodotto, quanto la comunicazione del prodotto, vale a dire il suo storytelling. Una vera e propria «ondata di para-creatività o meglio di pseudo-creatività» (Legrenzi, 2005), al punto che per la prima volta nella storia dell’umanità nasce una professione svolta da persone che vengono designate come i “creativi”. Sono coloro che nelle agenzie di pubblicità, devono farsi venire nuove idee, spunti per le campagne volte a comunicare in modo creativo i prodotti.
Un ottimo strumento che concerne il rinnovamento dei prodotti è proprio il brainstorming, tecnica molto utilizzata in azienda che si fonda sull’idea gestaltista di ristrutturazione (tanto che in questi contesti oggi si parla di gamestorming). «Spesso un problema o una questione si presenta in una forma che induce a adottare soluzioni consuete o apparentemente ovvie, in quanto magari già utilizzate in passato. Non sempre queste sono le vere soluzioni. Talvolta sono un modo di sbarazzarsi del problema. Allora le persone che vogliono farsi venire delle buone idee dimenticano il problema così come è stato loro presentato, abbandonano ogni forma di pudore aziendale e si mettono a scambiarsi le prime idee che vengono loro in mente, anche quelle più assurde. Spesso è proprio tra queste che gli altri membri del gruppo creativo trovano lo spunto per l’innovazione, per una trovata, per qualche cosa che i concorrenti non hanno ancora fatto» (Legrenzi, 2005).
Nell’innovazione tecnologica, la creatività produce qualcosa che non esisteva neppure nel mondo delle idee, seguendo un iter complesso e differenziato: dalla sequenza per prove ed errori fino ai casi di insight puro. Ad esempio, l’invenzione dell’apertura delle lattine di bibite, mediante lo strappo di una linguetta, è stata un’invenzione frutto di un aha-Erlebnis. Lo stesso è avvenuto per il bianchetto, introdotto da una dattilografa americana stufa di dover ribattere pagine e pagine zeppe d’errori, oppure il balsamo, che lascia allo shampoo le proprietà tradizionalmente connesse al lavarsi e si appropria di quelle cosmetiche.
Poi c’è “l’enorme cimitero” delle innovazioni mai adottate; e non necessariamente perché costituiscono l’esito di un processo ripetitivo, meramente riproduttivo: ad esempio, la macchina incorporata nel cappello per fotografare senza essere visti. E infine, ci sono le invenzioni analoghe dal punto di vista della produzione cognitiva, ma più immateriali, che vanno idealmente a collocarsi nello spazio interstiziale tra la funzionalità e la comunicazione. Come afferma Legrenzi (2015), la storia del design è fatta soprattutto di progetti mai giunti alla fase di realizzazione. È proprio in questo territorio nutrito di rimpianti e delusioni che vanno ricercate le radici profonde della forma assunta, in ultimo, dalle cose che animano il nostro mondo.
Da un lato, si hanno invenzioni che sono innovazioni tecnologiche pure in attesa di un uso definitivo – come il fonografo di Thomas Edison – dall’altro abbiamo obiettivi tecnologici certi che vengono raggiunti gradualmente per prove ed errori seguendo un processo asintotico. È il caso dell’invenzione e perfezionamento delle cerniere lampo o zip, che ha avuto questo tipo di percorso; ci vollero anni e anni per riuscire a risolvere il problema della loro realizzazione tecnica e relativa produzione. La meta era nota, si sapeva dove si voleva arrivare, ma non si riusciva a trovare una soluzione adeguata al problema. Fu Sundback a risolvere la questione riguardo la progettazione dell’oggetto e la sua produzione in serie, brevettando prima la cerniera e poi la macchina per produrla. Anche nel caso della bicicletta o dell’auto il percorso è stato progressivo, per raffinamenti successivi, insomma per prove ed errori. La teoria gestaltista dell’insight non si applica dunque alle traiettorie tecnologiche di molte invenzioni (Legrenzi, 2015).
Oggi la creatività è diventata centrale in una società tecnologicamente avanzata
Per molti secoli la nozione di creatività aveva giocato un ruolo soltanto nelle dispute teologiche, di cui sopra gli accenni. Oggi la creatività è diventata centrale in una società tecnologicamente avanzata e si è articolata in professioni e figure specifiche.
«Ma se guardiamo all’Italia, malgrado l’enfasi sulla creatività del Made in Italy, dobbiamo ammettere che il nostro paese non è certo leader nelle imprese ad alta intensità di conoscenza. Queste nascono da e tra scienziati ed esperti di comunicazione, studiosi d’intelligenza artificiale e professionisti nei settori finanziari e ad alta tecnologia. Secondo le stime effettuate da Richard Florida, professore alla Carnegie Mellon, in Italia il peso di queste occupazioni sul totale degli occupati è intorno al 13%, meno della metà che negli Stati Uniti, Belgio, Olanda e Finlandia e la metà rispetto a Gran Bretagna e Irlanda» (Legrenzi, 2015).
La creatività diviene così una sorta di elemento pivot dal quale accedere alle molte e variegate progettualità, per agire nel cono dei futuri possibili (Voros, 2003), proprio all’interno di un set di opzioni preferibili. Ma un “futuro preferibile” dipende, qui ed ora, da come leggiamo la nostra contemporaneità, da quale importanza attribuiamo alla progettualità, o alla co-progettualità; vale a dire, disegnare possibili scenari di azione sociale frutto di una condivisione di sensibilità e affinità diverse. I benefici derivanti dall’innovazione tecnologia in sé, infatti, nel più lungo termine, non sono sufficienti a rispondere a problemi di ordine economico e sociale. Da qui la necessità (Caroli, 2015), di individuare un nuovo paradigma che indichi una rottura nel modo di trovare soluzioni.
Secondo Nicholls e Murdock (2012) le ricerche ad oggi pubblicate sulla SI (Social Innovation), si sono concentrare sull’analisi dei sistemi e dei processi che favoriscono il cambiamento nelle relazioni sociali, e sulla progettazione e la produzione di beni e servizi che mirano a soddisfare i bisogni sociali non soddisfatti. Due sono i filoni di studi che caratterizzano la letteratura finora prodotta. Un filone di ricerca è indirizzato alla comprensione di meccanismi che rispondano ad esigenze sociali, tradizionalmente non soddisfate dal mercato, o per mancanza di strumenti da parte delle istituzioni esistenti. Il secondo filone approfondisce i meccanismi che favoriscono un cambiamento sistemico, attraverso una trasformazione dei modelli organizzativi e delle relazioni intra-organizzative.
«In che modo allora il contesto sociale può [concretamente] orientare la creatività?» (Lai, 2006). Occorre fare un passo indietro. I futuri preferibili riguardano oltremodo le valenze estetiche dell’organizzazione sociale. In questo senso, per comprendere cioè la rilevanza della dimensione estetica della vita organizzativa, almeno come si è manifestato tra la fine dello scorso secolo e l’inizio di quello attuale, è utile approcciarsi in modo transdisciplinare (la dimensione estetica è oramai un ambito che mette insieme aspetti di sociologia, semiotica, antropologia, design…) per comprendere fino in fondo la materialità della vita quotidiana all’interno delle organizzazioni sociali.
Il tema “estetica” non è solo collegato all’idea di bello (che è un discorso spesso soggettivo e oggetto di negoziazione), la sua radice etimologica viene dal greco antico aisth e dal verbo aisthánomai, e significa conoscenza sensibile, quella che ottengo attraverso i sensi. È una conoscenza tacita, quindi difficilmente descrivibile. Nell’organizzazione rappresenta il modo con cui individui e gruppi agiscono praticamente, dando ascolto a desideri e sensazioni, talenti e passioni. Questa azione non avviene solo tra esseri umani ma anche grazie alla mediazione di artefatti e induce un processo negoziale in costante ri-definizione. Se partiamo da questo assunto, è possibile affermare che essa altro non è che una relazione post-sociale, in quanto determinata dalla capacità di indurre azioni negli uomini grazie a specifici artefatti che di fatto ne condizionano il sistema stesso delle relazioni in essere. Si rivolge quindi ad aspetti fisici, ma anche a dimensioni impalpabili (Strati, 2010).
Nel modello di Edgar Schein, psicologo dell’organizzazione ed esperto di cultura organizzativa, questa dimensione impalpabile coincide con la dimensione degli assunti dell’organizzazione, una sorta di “curriculum nascosto” che percepisci, sebbene sia difficilmente esplicitabile, appena metti piede dentro una struttura organizzata (Schein, 1985). Estetica è anche l’atto del dare forma: «formare, dare forma, foggiare è cruciale per l’azione organizzativa e per la sua gestione, ed è un atto per cui la creatività non rimane circoscritta ai mondi dell’arte, ma riguarda l’organizzare…» (Strati, 2010).
Questo punto di vista aggiunge un ulteriore tassello alla nostra lettura, perché il coinvolgimento sensoriale si traduce anche in una dimensione di operosità. Nel fare cose. E nel farle insieme. Il farlo insieme però richiede presenza. E richiede contatto, anche tattile, che non potrà mai essere sostituito dallo screen-deal che pare apparire come una delle possibilità per il lavoro futuro. La dimensione estetica è un pezzo importante dell’organizzazione e richiede luoghi, artefatti e pratiche di prossimità.
La creatività, a livello organizzativo, non è dunque, o non è più solo e soltanto un fenomeno individuale ma è sia un atto sociale, sia un atto di costruzione sociale: in un futuro preferibile qualsiasi tipologia di organizzazione sarà creativa (o non sarà).
Una tecnologia sociale a disposizione di un’organizzazione per l’innovazione è sicuramente il design thinking (Lietdka, 2018). È tecnologia perché si realizza in un set di strumenti e metodologie da gestire all’interno di gruppi e, per questo motivo, ha una dimensione sociale. È inoltre un mindset, almeno per chi si occupa di design e non (solo) di gestione dell’innovazione. Il design thinking funziona proprio così: cioè ha un buon grado di successo nei processi di innovazione quando viene integrato nella cultura organizzativa. In altre parole, quando emerge una fiducia diffusa nelle potenzialità di ognuno per un approccio creativo alle sfide che, di volta in volta, vengono poste.
La creative confidence, codice sintetico con cui la letteratura indica questo fenomeno (Kelley and Kelley, 2013), è una conquista recente, spesso associata al tema dell’engagement del lavoratore: se ho un ambiente che dà tempo e spazio per individuare nuove opportunità per la mia organizzazione, mi sentirò più motivato e sentirò forte l’essere parte (importante) dell’organizzazione. Si chiede pertanto ai leader di essere loro per primi i creativi in capo, ma anche di costruire le condizioni e i dispositivi utili per amplificare le capacità creative delle persone che collaborano (collaboratori più che dipendenti).
Il ruolo del design per costruire un futuro preferibile: la creatività si fonde con innovazione e con sociale
A questo punto, sono ben chiare due cose in questo ragionamento. Da una parte, che la turbolenza indotta da tecnologie dirompenti induce un atteggiamento favorevole alla creatività. Dall’altra emerge un’idea del lavoratore come persona-con-capacità che va incoraggiata per mettere on stage queste capacità (Sen, Nussbaum, 1993).
Un inciso: il pensiero positivista e razionalista dell’organizzazione burocratica con le sue norme, i suoi dispositivi organizzativi, i suoi regolamenti, che tende a livellare tutti gli attori dell’organizzazione, viene seriamente compromesso (una grossa minaccia verso l’istituzionalizzazione dell’organizzazione) dalla scelta del “dare spazio” alla creatività di ognuno: perché certamente la creatività non può essere ingabbiata in norme e regolamenti e rifugge ogni forma di omogeneizzazione.
Ecco perché la creatività, per come la possiamo leggere a livello organizzativo, non è un fenomeno solo individuale ma è un atto sociale: non ha senso una proposta se non c’è riconoscimento e negoziazione sociale della stessa (Csíkszentmihályi, 1996). Questa negoziazione ha bisogno di relazione, di spazi che la favoriscono, di strumenti e di laboratori. Anch’essa è legata a una dimensione del fare insieme, con connotazioni artigianali, intendendo con ciò l’essere dentro l’atto del fare, con dedizione e passione (Sennett, 2014).
È Thomas Kuhn che ci ha insegnato come leggere il collasso di vecchi paradigmi e l’emergere di nuovi: il «genere di considerazioni che può indurre uno scienziato ad abbandonare un vecchio paradigma a favore di uno nuovo» può essere costituito dalle argomentazioni che di rado sono del tutto esplicite, che fanno appello alla sensibilità dell’individuo per ciò che è appropriato o presentano un aspetto esteticamente attraente. la nuova teoria viene presentata come semplicemente più adatta della vecchia (Thomas Kuhn, 1969).
Il ruolo del design, come delle altre discipline del progetto, è proprio questo. Contribuire, con i propri mezzi e le proprie abilità narrative, a rendere un futuro preferibile – e progettabile – elegante, attraente e soprattutto adatto per il nuovo mondo che ci aspetta. La creatività si fonde con innovazione e con sociale, senza soluzione di continuità, anche se con il termine “social innovation”, nel corso degli ultimi anni, si sono espressi concetti non sempre univoci.
Dal modello della BS alla SI
Un primo filone di letteratura fa risalire la SI alla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, in particolare al movimento di estrazione sociologica denominato Big Society. Il movimento nasce su proposta di Anthony Giddens, che nel suo libro la “Terza Via” (1998), prospetta un modello secondo il quale è necessario ridurre l’azione del Big Government e favorire lo sviluppo dell’iniziativa dei liberi cittadini di associarsi per trovare soluzioni alternative a esigenze di natura sociale.
La teoria di Giddens fu applicata nel 2010, dal Primo Ministro Inglese Cameron che si dichiarava favorevole ad una redistribuzione del potere, attraverso la promozione di una spinta dal basso, sia in termini sociali che economici (Euricse, 2011). La politica di Cameron era rivolta, da una parte alla riduzione dei costi pubblici, dall’altra cercava di incoraggiare il senso comunitario e la libera iniziativa dei cittadini inglesi, cercando di spostare i servizi dello Stato centrale verso le comunità locali.
Con il modello della Big Society s’intendeva modificare il concetto di servizio ed il ruolo dello Stato rispetto all’erogazione stessa del servizio: aumentare l’autonomia locale e ridurre la forza dello stato centrale e favorire in questo modo un processo di disintermediazione sui servizi sociali. Una delle maggiori motivazioni alla base della disintermediazione localizzata è data dal fatto che ogni comunità ha caratteristiche ed esigenze specifiche. Un’azione diretta e mirata consentirebbe una maggiore efficienza, nonché una riduzione degli sprechi.
La SI diventa l’emblema di un nuovo modo di concepire il rapporto tra attore pubblico e cittadino, dove viene meno l’unidirezionalità del rapporto erogatore/fruitore, per favorire lo sviluppo di forme di collaborazione e partecipazione attiva da parte dei cittadini nella progettazione di nuovi prodotti o servizi di pubblica utilità che lo Stato da solo non è più in grado di erogare. In sintesi, l’origine della SI trae spunto dalla crisi dei sistemi di welfare tradizionali e trova applicazione in una serie d’interventi che promuovono migliori condizioni di vita delle persone e delle comunità, in particolare di quelle riconosciute, a vario titolo, come “svantaggiate” (Cottino, Zandonai, 2012) o potenzialmente tali. Oggi, tendiamo a definirle “fragili”.
La SI è espressione di una dimensione locale di esigenze che si esprime attraverso il concetto di relazione di prossimità (Pellizzoni, 2014), ossia un insieme di azioni di un territorio che sono espressione di una caratterizzazione geografica e di una capacità identitaria di tipo politico, sociale e culturale.
In un altro filone, quello urbanistico, è stato Carlos Moreno a introdurre il concetto di “città dei 15 minuti”, convincendo la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, a adottare un modello di decentralizzazione dei servizi per favorire la rinascita di quartieri e periferie. Il concetto è semplice: abbandonare l’idea di una città organizzata spazialmente per funzioni e realizzare, invece, dei luoghi urbani dove in pochi minuti, a piedi o grazie a mezzi di mobilità sostenibile, sia possibile raggiungere tutti quei servizi che rendono un luogo vivibile. Il sociologo americano Oldenburg ha parlato, a questo proposito, di terzi luoghi (Ray Oldenburg, 1989) come degli spazi che oltre la domesticità e oltre il workplace, fanno accadere le cose. E ciò che si verifica, seppure in forme ancora poco definite, è che i cosiddetti smart working places – come i bar, i ristoranti, gli alberghi, ecc. – si attrezzano per accogliere chi fa, chi produce, chi, in buona sostanza, lavora.
Nell’immaginario della città di prossimità si prefigura un cottage di prossimità, spesso hub che offrono una gamma più ampia di servizi alle comunità locali. Sono piattaforme oggi associate quasi esclusivamente al co-working, ma che in futuro potrebbero configurarsi come attivatori e stimolatori di aggregazione e di creazione di comunità. Tutto questo, naturalmente, porta con sé l’esigenza di policies specifiche, di azioni dimostrative della bontà di questi modelli, di incontro e confronto tra pubblico e privato. Prevede soluzioni che non siano definitive, in forme capaci di ascolto, quasi soluzioni in beta, sempre aperte a potenziali miglioramenti e adattamenti.
Include una ibridazione tra forme fisiche e digitali delle piattaforme, usando le seconde per favorire le prime. Anche perché la relazione, al centro di questa riflessione, ha bisogno di tattilità. O di erotismo, inteso come espressione concreta della corporeità (Hosoe, Marinelli, Sias 1991) nel rapporto con l’altro: le altre persone «non sono mai per me spirito: non li conosco che attraverso i loro sguardi, i loro gesti, le loro parole, in una parola, attraverso il loro corpo». (Merleau-Ponty, 2002). L’altro, con il suo corpo, è quello di cui prendersi cura. L’ufficio di prossimità sarà luogo del contatto fisico, del lavoro, anche pratico, insieme, della cura. Una cura che con le parole di María Puig de la Bellacasa (2017), deve andare oltre l’umano per abbracciare tutto ciò che ci circonda, riconoscendo l’interdipendenza dell’uomo con l’ecosistema che lo accoglie e che è, quasi irrimediabilmente, compromesso.
La relazione di prossimità si innesta nel processo di conversione del modello di welfare nel quale è necessario rivedere il ruolo delle comunità locali a seguito della crisi di legittimità del moderno sistema di rappresentanza e dell’attuale sistema democratico, intimamente legato all’altra crisi del modello produttivo e del complementare modello di relazioni industriali. Ed è proprio a seguito dell’importante crescita economica e sociale partita con il secondo dopoguerra, che le crisi degli anni Settanta prima e quella del nuovo secolo poi, hanno condotto lentamente il mondo occidentale in una situazione di “austerità permanente” (Pierson, 2001), contraddistinta dal comparire di nuovi bisogni sociali, emersi da importanti cambiamenti, economici, culturali e demografici.
Si aggiunge a tutto ciò l’impossibilità di promuovere un intervento diretto dello Stato a causa della sempre più incessante necessità di contenimento della spesa pubblica. In questo contesto, nel quale sono mutate le esigenze, ma non ancora gli strumenti risolutivi, è necessario pensare a programmi di assistenza sociale nuovi a fronte di una domanda di tutela maggiormente differenziata. Si sente sempre di più la necessità di abbandonare strumenti orizzontali per sviluppare modelli verticali che escano dai rigidi schemi mentali finora adottati e che provino a rispondere a esigenze specifiche, che per loro stessa natura sono diverse le une dalle altre.
A partire dagli anni Novanta, nella maggioranza dei paesi europei si è così avviato il consolidamento di un modello di matrice neoliberista che promuove la visione di uno “stato minimo” in grado di ricondurre l’azione pubblica a meccanismi di mercato con l’obiettivo di soddisfare bisogni individuali diffusi (Bonoli et al., 2000) all’interno di un contesto di crisi economica che assottiglia drammaticamente le risorse disponibili per l’erogazione di servizi di primo welfare. Come affermato da Nicholls e Murdock (2012) la maggior parte dei problemi irrisolvibili sono visti come evidenza del fallimento di soluzioni e paradigmi convenzionali radicati in contesti istituzionali tradizionali della società.
La SI nasce come risposta ad una domanda collettiva di servizi assistenziali che però necessitano di adattarsi a contesti e situazioni diverse per rispondere a domande sociali urgenti e importanti. Adattarsi, significa ridisegnare le politiche pubbliche e immaginare forme alternative di partecipazione. La soluzione proposta in questo scenario è orientata all’individuazione di nuovi modelli di partnership tra pubblico e privato, con la logica di includere soggetti nuovi nel processo di governance al fine di superare le rigidità del modello di welfare post-bellico (Canale, 2013), come, per esempio, attraverso l’inclusione di processi industriali all’interno dei fenomeni di urbanizzazione (Mulgan, 2020). La SI viene presentata come una formula sintetica in grado di indicare contemporaneamente concetti come quelli di cambiamento istituzionale, fine sociale e bene comune (Pol e Ville, 2009).
L’innovazione sociale, secondo Murray, Grice e Mulgan, è dunque un concetto complesso, definibile come: «L’insieme di pratiche, di strategie, d’interpretazioni socio-economiche, di nuove tecnologie e nuove forme organizzative in cui i rapporti e le relazioni sociali diventano fondamentali presupposti per sviluppare l’attività imprenditoriale attraverso un approccio pragmatico all’identificazione di soluzioni ai problemi sociali» (Caroli, 2015).
Attraverso l’innovazione sociale si cerca di individuare nuovi modi per organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno politico. Come afferma Caroli (2015), la socializzazione tra individui permette lo sviluppo di nuove forme organizzative al fine di favorire l’attività imprenditoriale come spinta per la ricerca di nuovi modelli d’impresa in grado di erogare prodotti o servizi innovativi che rispondono alle esigenze dei nuovi fabbisogni sociali.
La SI, secondo questa prospettiva, va compresa più per la sua capacità di creare impatto sociale, che per la novità intrinseca nelle proposte. Quello che conta è il miglioramento del risultato sociale in termini comparativi tra le soluzioni già esistenti e quelle nuove, piuttosto che la novità dei servizi in sé (Neumeier, 2012). Un’innovazione è una SI, se la nuova idea ha il potenziale per migliorare la qualità della vita di una determinata comunità (Poll e Ville, 2008) e se crea una discontinuità con il passato, dove la soluzione proposta migliora le condizioni rispetto allo stato precedente delle cose. L’accezione sociale del termine innovazione amplia notevolmente le tipologie d’innovazione incluse nella definizione di Murray, Grice e Mulgan.
«Come trasferito da Hamalainen e Heiskala esistono cinque tipi di SI: tecnologica, economica, regolativa, normativa e culturale. Le innovazioni tecnologiche sono modi nuovi e più efficienti per trasformare la realtà materiale, mentre le innovazioni economiche mettono le innovazioni tecnologiche al servizio della produzione di plusvalore. Nel loro insieme queste due tipologie d’innovazione costituiscono la sfera delle innovazioni tecno-economiche […] Le innovazioni regolative trasformano le norme esplicite e/o i modi con cui sono sanzionate. Le innovazioni normative sfidano i valori affermati e/o il modo in cui i valori sono tradotti in norme sociali legittime. Infine, le innovazioni culturali sfidano i modi affermati per interpretare la realtà, trasformando paradigmi mentali, cornici cognitive e abitudini interpretative. Nel loro insieme queste tre classi costituiscono la sfera delle innovazioni sociali» (Caroli, 2015).
Si tratta di classi e modelli che enfatizzano il processo di socialità delle innovazioni attraverso l’interazione tra attori, che si riconoscono nella necessità di organizzarsi per trovare risposte a bisogni di tipo sociale (Zamagni, 2008), per esempio attraverso la riduzione dei costi di produzione (Borzaga, 2014). La vera novità che emerge da questa impostazione è che il focus non è tanto sugli attori o sulle organizzazioni ma sulle problematiche e sulle relative soluzioni; questo favorisce l’emergere di nuove forme di collaborazione tra attori, pubblici, privati e non-profit. Proprio in questa direzione si rivolge, quindi, la definizione di SI proposta da Nesta, per cui l’Innovazione Sociale è «una innovazione che risolve un bisogno sociale che non è stato risolto da interventi tradizionali, né da parte di soggetti privati, né da servizi organizzati da parte dell’attore pubblico».
Secondo la Commissione Europea e l’ufficio del BEPA (Bureau of European Policy Advisers) «la SI si caratterizza per la ricerca di bisogni sociali attraverso nuove forme di collaborazione e relazioni tra diversi gruppi di individui». L’innovatività delle relazioni, Caroli (2015), è il punto cardine del concetto di SI, che passa attraverso sia l’individuazione di nuovi modelli relazionali, sia attraverso il coinvolgimento di gruppi d’individui che finora collaboravano o non in maniera tradizionale.
La vera novità è rappresentata dal fatto che l’individuazione di ambiti di azione e bisogni su cui agire è rilasciata agli individui e alla loro capacità di sviluppare relazioni. La costruzione di reti relazionali tra diversi attori determina la capacità di individuazione dei problemi e la conseguente ricerca di proposte risolutive. «Con questa definizione si sancisce la relatività delle innovazioni sociali, sia in termini spaziali che di contenuto» (Caroli, 2015, p. 27). Ogni azione di innovazione sociale dipende innanzitutto dalle tipologie degli attori che si organizzano, dalle loro coalizioni, dalla loro capacità di scambiarsi informazioni e flussi di conoscenza per il fine ultimo di sviluppare soluzioni nuove a problemi già emersi nel tempo (Caroli, 2015).
Ogni innovazione sociale è sociale sia nei suoi mezzi che nei suoi fini; ogni attività di SI deve essere coerente nella generazione di valore sociale (i fini) attraverso la scelta di metodi e strumenti adeguati alla realizzazione (i mezzi). Ciò avviene attraverso la dimensione collettiva della SI e l’innovazione delle relazioni tra diversi attori. Ogni qualvolta si costituisce una comunità di interesse relativa ad un determinato bisogno sociale, si attivano relazioni nuove che portano alla selezione e individuazione di nuove soluzioni al problema inziale.
Tale processo può nascere, sostanzialmente, in due modi: si individua un problema sociale (riconosciuto come tale) e si costituisce una rete di attori intorno a quel problema che, attraverso un legame di valore, individua una serie di soluzioni; oppure si parte dalla costruzione di relazioni e dal riconoscimento di un network, e successivamente si identificano problemi sui quali concentrare lo sforzo risolutorio. In entrambi i casi si evidenzia comunque la necessità di riconoscere un contesto storico e geografico quale punto di partenza, e da quello avviare processi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di un numero ampio di attori, nell’ottica di determinare la struttura del processo di SI e il relativo spettro di azione. BEPA (2010).
Il caso paradigmatico dell’Italia
Come emerge nel rapporto INAPP-LUISS SEP, novembre 2021, «Il welfare italiano tra le spinte del cambiamento tecnologico e lo shock della pandemia» – che presenta i risultati del Progetto di ricerca sul tema «Innovazioni tecno-organizzative e nuovo welfare europeo» – le conseguenze della pandemia e le interrelazioni con le spinte del cambiamento tecnologico hanno avuto un impatto notevole in materia di welfare in tutta l’Unione Europea; pur tuttavia, l’Italia rappresenta un caso paradigmatico, sia in termini di ricadute occupazionali, sia in termini di incidenza che le cadute di fatturato, le caratteristiche dei profili professionali, i livelli retributivi e lo svolgimento di attività di formazione hanno avuto sul calo del numero di occupati e soprattutto delle ore lavorative delle professioni nei vari settori (a partire da quelli più colpiti). «In linea generale, l’analisi conferma l’impatto che le cadute di fatturato hanno esercitato sul numero degli occupati (e, ancor più, sulle ore di lavoro), ma al contempo mostra anche l’influenza significativa degli altri fattori esaminati relativi alle caratteristiche professionali, retributive e di formazione».
Nel periodo della pandemia, si è andata ad instaurarsi una relazione inversa tra intensità di routine dei task svolti dai lavoratori e relativa occupazione, evidenziando, nel contempo, il contributo positivo apportato dalla digitalizzazione. Per quanto riguarda la parte del Rapporto dedicata a «Il sistema di welfare italiano nella prospettiva UE: agenda sociale europea, politiche attive sul lavoro e contrasto alla povertà», l’analisi comparata tra il sistema italiano e quello europeo fa emergere che, nell’insieme, pur con alcuni marginali cambiamenti, l’Italia continua a costituire nel panorama europeo un paese carente nell’agenda dell’investimento sociale, specie per la scarsità di investimenti in capitale umano, in servizi di cura, conciliazione e politiche attive del lavoro.
«In questa chiave di lettura si possono interpretare anche le trasformazioni che negli ultimi anni hanno dato luogo agli interventi più rilevanti, a cominciare dal contrasto della povertà. Essi hanno comportato un cambiamento profondo rispetto agli equilibri tradizionali di un welfare mediterraneo come quello italiano, ove le politiche socio-assistenziali svolgono tradizionalmente un ruolo residuale, essendo tali funzioni rimesse nei fatti alla cura informale familiare sia in modo diretto che indiretto per il tramite delle assicurazioni sociali obbligatorie (pensioni). Nonostante, però, le riforme avviate per il potenziamento del welfare territoriale, il sistema dei servizi appare ancora incagliato in equilibri di tipo “mediterraneo”, da un lato con una bassa spesa per le politiche sociali, dall’altro con un persistente sovraccarico di funzioni di cura sulla famiglia. Le riforme che si sono succedute hanno prodotto interventi settoriali, spesso di durata limitata e scollegati da un piano di investimenti sulle infrastrutture sociali. Data una copertura nazionale dei servizi bassa, ma soprattutto contrassegnata da forti disparità territoriali, la mancanza di prospettive di lungo termine ha indebolito gli sforzi di ricalibratura del welfare italiano, almeno fino agli anni più recenti. (…) Si riscontra, quindi, la difficoltà di operare effettive discontinuità rispetto a una traiettoria storica-istituzionale che riamane stabile pur nelle innovazioni. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha previsto lo sblocco di investimenti che nelle intenzioni dovrebbero contribuire alle dotazioni di servizi e infrastrutture sociali, così come al sistema dei servizi e delle politiche attive del lavoro. Resta evidentemente cruciale la verifica che la loro implementazione incida concretamente sulla ricalibratura di quelle aree di intervento fondamentali per dare risposta ai nuovi bisogni sociali, e con essi anche al riposizionamento dello stesso modello di crescita».
Come afferma A. Bernardoni in «Ripensare il welfare dopo la pandemia. Il possibile ruolo delle imprese sociali», Il Covid-19 ha da un lato svelato le fragilità del welfare italiano e dall’altro ha mostrato insospettabili risorse e punti di forza del nostro sistema, tra i quali l’esistenza di una rete di imprese sociali ed enti del Terzo settore, presenti su tutto il territorio nazionale, che in molti casi hanno: (i) ideato nuove attività capaci di affrontare i bisogni generati dall’emergenza pandemica; (ii) utilizzato la tecnologia per ripensare le modalità di produzione/fruizione di molti servizi essenziali; (iii) implementato nuovi progetti digitali rivolti a bambini, ragazzi, persone disabili e anziani.
Le imprese sociali si «sono impegnate nella costruzione di nuove reti sociali ed economiche e nel rafforzamento dei legami comunitari sfibrati dal confinamento forzato, così come hanno fatto le migliaia di volontari che in poche ore dall’inizio del primo lockdown hanno saputo organizzare la distribuzione di farmaci, cibo ed altri generi di prima necessità alle persone più fragili rimaste sole e senza punti di riferimento. Questo intervento, partendo dall’analisi delle criticità del welfare sociale e sanitario, vuole aprire un confronto dal basso sul futuro del welfare, dopo la pandemia. Una riflessione che appare quanto mai necessaria considerando che i provvedimenti adottati nell’emergenza dal Governo sono concentrati esclusivamente sul potenziamento del Sistema Sanitario Nazionale senza, però, metterne in discussione le logiche di fondo che hanno determinato la situazione attuale e non prevedono il rafforzamento della rete dei servizi alla persona che invece costituisce un fattore strategico non solo per innalzare il livello di coesione sociale ma, più in generale, per la crescita economica del Paese.
Un primo tema che la pandemia ha proposto con forza è la necessità di rivedere il rapporto Pubblico-Privato. Il Covid-19 ha reso evidenti i limiti delle politiche pubbliche, come ad esempio quelle sociali e sanitarie, ma allo stesso tempo ha anche alimentato la domanda di un maggiore intervento pubblico a cui, nei provvedimenti del Governo, è stato risposto prevedendo maggiori risorse per nuove assunzioni di medici, infermieri e operatori socio-sanitari da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Negli ultimi due decenni, però, il ruolo del pubblico in ambito sociale e sanitario è stato fortemente ridimensionato: sul lato della domanda è cresciuta significativamente la spesa privata delle famiglie per prestazioni sociali e sanitarie e si è rafforzata la presenza dei grandi player della finanza e del mondo assicurativo; mentre, sul lato dell’offerta, è aumentato il peso dei privati for profit in ambito sanitario e delle organizzazioni non profit in quello sociale» (A. Bernardoni).
Come mette in evidenza Bernardoni, è la pandemia stessa che ha reso necessarie l’innovazione sociale e il potenziamento dell’integrazione socio-sanitaria, nonché il coinvolgimento di tutti gli attori a partire dagli enti pubblici, privati, il Terzo settore, fino alle imprese sociali: «Queste organizzazioni, infatti, come già in passato, possono offrire un contributo importante nella costruzione di servizi alla persona flessibili e modulari (pensati sulle biografie delle persone), che valorizzino le risorse presenti nella comunità e raggiungano l’efficienza gestionale puntando sulle economie di rete piuttosto che sulle economie di scala».
La creatività disegna nuovi percorsi di innovazione sociale. L’innovazione sociale disegna nuovi futuri preferibili.
Alessandro Baccani | @aneway | #ChiefHappinessOfficer, #BusinessInnovationDesigner
*L’articolo è tratto da “Studi e teorie sul pensiero creativo: un quadro di riferimento” di Afra Baccani.