Disincanto, Disaffezione e Distacco dalla politica sono le tre “D” che abitano il presente, albergano nei cuori e pernottano nella mente comune dell’uomo-post (post-moderno, post-industriale, post-democratico, post-pandemico…). Meglio fuggire. È lo slogan più condiviso e diffuso in quest’epoca. Anche se non sappiamo bene da cosa o da chi. Meglio isolarsi, come abbiamo imparato a fare durante la Pandemia. Ma non si può sempre fuggire. E non è sempre lecito farlo. Cosa possiamo fare per non sentirsi “complici” e allo stesso tempo non alimentare spirali di contrapposizione generalizzata, di odio e di violenza. Che sterilizzano ogni buona intenzione e non aiutano a capire.

Quale disegno politico è in grado di guidarci verso un futuro più civile, che non sia quello dello scudo stellare, delle azioni di polizia internazionale, degli aiuti “umanitari” alle popolazioni sopravvissute alle stragi delle guerre preventive, della repressione e della tolleranza zero…? Quale disegno politico è in grado di liberarci dalla guerra, dalla tentazione di imporre con le armi le nostre ragioni.

Governance e nuova democrazia trans-nazionale sono due delle tematiche più cogenti e più complesse di questo tormentato inizio di millennio che riemergono prepotentemente dal silenzio della morte causata dal virus. “Un virus che ripete il modo di agire delle collettività che aggredisce: conquista un territorio, si alimenta delle sue risorse, lo soffoca, poi ne attacca un altro. Agisce come avesse un’intenzione, speculare alla società infiltrata: ciò che viene attaccato si riconosce in ciò che lo attacca, come in un famigliare che gli si rivolta contro. Da qui un effetto paralizzante, un generale stordimento” (R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2021).

Calasso si riferisce all’Homo saecularis che abita l’Occidente. Coglie l’aria del tempo. Lo spaesamento da perdita di ogni dimensione trascendente, ideologica o religiosa, impedisce di nominare la nostra epoca, di situarci nel flusso della storia. La società e il virus che la corrode si rispecchiano l’una nell’altra. Nesso suggestivo. Specie se leggiamo le nostre reazioni all’attacco virale sullo sfondo delle ossessioni che percorrono l’uomo occidentale, ne corrodono le ragioni del convivere e dell’agire insieme, svuotano le istituzioni di senso e legittimazione (“L’altro virus”, Limes, n. 1/2022).

È sempre più difficile credere nella politica, oggi. In quest’epoca di violenza dilagante, governati da classi dirigenti inette e impreparate. È sempre più difficile credere nella politica, alla luce di ciò che accade in Ucraina.

Non basta più constatare come si stia allontanando dal modello tradizionale l’esercizio della democrazia. È sempre più necessario sondare e individuare ipotesi alternative di forme di manifestazione d’opinione che, magari avvalendosi delle moderne tecnologie di comunicazione, stimolino una più intensa, tempestiva e consapevole partecipazione dei cittadini, in grado di controbilanciare l’operato dei cosiddetti poteri forti (Un esempio concreto di logica dell’hard power, è riscontrabile in J. S. Nye jr., in Il paradosso del potere americano, Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Einaudi, Torino, 2002). Ma la tecnologia non è purtroppo uno strumento neutro. Conosciamo bene il potere diabolico di certe tecnologie quanto a condizionamento delle opinioni e distorcimento dei fatti, grazie alla propagazione di notizie false e tendenziose.

Studiare come nuove forme politico-partecipative possano innestarsi nell’attuale sistema rappresentativo, non deve indurre a pensare a modelli populisti di co-gestione del potere, piuttosto a modelli collettivi di individuazione di determinati obiettivi sociali, condivisi all’interno di macrorealtà politico-culturali trans-territoriali.

D’altra parte, per la stessa dimensione mondiale che ha assunto l’insieme degli eventi che caratterizzano i tempi in cui viviamo, un rinnovato esercizio di una democrazia che si avvalga di modalità di espressione rapportate alle potenzialità dei mezzi di comunicazione attuali, rappresenta già di per sé un’interessante via da percorrere per una democrazia transnazionale e interetnica.

La crisi dello Stato-nazione e del concetto di sovranità coincide con l’esplosione di Internet e l’implosione del circuito massmediale, a diverso titolo considerati – scrive Calabrese – come basi possibili per il superamento e la ridefinizione dei confini dello spazio politico da parte di quanti accolgono il tramonto della sovranità come un discorso di emancipazione.

Ma il discorso sulla fine della sovranità è sfaccettato. È fonte di ottimismo e pessimismo. Fonte di ambivalenza. Esso ha catturato l’immaginazione popolare e lo si può ritrovare nelle inquietudini dei leader nazionali circa la mescolanza e la collisione delle culture e l’impatto dei prodotti culturali all’interno ed attraverso i loro confini, nonché nella crescente consapevolezza che le sfide ambientali non hanno bandiera. Secondo questa prospettiva i governi nazionali sono sempre più impotenti contro le situazioni, reali o immaginarie, di imperialismo e sub-imperialismo culturale.

La società attuale, per motivi non esclusivamente, o non necessariamente, legati allo sviluppo delle telecomunicazioni, tende sempre più a de-territorializzarsi, evidenziando i limiti dei governi nazionali. Calabrese si riferisce esplicitamente al concetto di “distruzione creativa” dei limiti politici imposti agli Stati sovrani per opera dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa. (A. Calabrese, “I mezzi di comunicazione e il discorso sulla sovranità”, in C. Padovani, Comunicazione globale. Democrazia, sovranità, culture, Utet, Torino, 2001).

Il modello westfaliano – vale a dire quel modello le cui principali caratteristiche sono: (a) trattare le ingiustizie perpetrate fuori dai confini nazionali come affari privati; (b) risolvere i conflitti tra gli Stati tramite l’uso della forza – entra decisamente in conflitto con la tendenza al riconoscimento e alla tutela dei singoli individui all’interno di uno stato di diritto internazionale. Anche se, come sostiene Held, il modello alternativo centrato sulle istituzioni sopranazionali non si allontana sostanzialmente da quello westfaliano, in quanto anch’esso basato sulla supremazia di una ristretta élite di potenti Stati sovrani (D. Held  “Democracy: From City States to a Cosmopolitan Order”, in D. Held (1993), Prospects for Democracy, Stanford University Press, Stanford).

È la globalizzazione, intesa non come semplice epifenomeno economico-finanziario ma piuttosto, e con effetti ben più devastanti, come fenomeno assai più profondo e totale, capace di coinvolgere e mutare le coordinate essenziali della mentalità collettiva e dell’essere sociale. Può mai essere questa globalizzazione (vera e propria “rivoluzione spaziale”, intendendo con questo termine una trasformazione qualitativa e sostanziale della percezione sociale dello spazio; o, se si preferisce, della percezione dello spazio sociale, dell’ambito, cioè, entro il quale si collocano gli eventi avvertiti come suscettibili di influenzare direttamente e in tempo reale la nostra vita quotidiana) la corretta via di uscita, la strada da percorrere per disinnescare le vecchie logiche di predominio?

Dunque, un mutamento dello statuto stesso della spazialità. Dunque, uno spazio “totale”, che coincide, senza apparenti residui, con l’intera estensione del pianeta (con il tutto spaziale che possiamo esperire). Fenomeno percepito (e tematizzato), in prima approssimazione, come “sfondamento”, abbattimento di confini, cancellazione delle antiche linee di demarcazione e di segmentazione che frammentavano fino a ieri lo spazio planetario in spazi territorializzati. Fine di ogni “esternità”. Della caduta di quel pilastro – costitutivo della spazialità politica moderna – che era la distinzione tra “dentro” e “fuori”, tra spazio interno e spazio esterno, noi adesso dobbiamo parlare. Dobbiamo confrontarci.

Siamo di fronte alla nascita di un universo sociale che tutto “ingloba”? ‘Non c’è più un fuori’? come affermano Hardt e Negri in un capitolo cruciale del loro Empire (M. Revelli, La politica perduta, Giulio Einaudi, Torino, 2003). In una realtà siffatta non è superfluo ripensare alla “necessità storica” del ruolo dello Stato-nazione al fine di portare a compimento un processo di semantizzazione e ridefinizione della politica sempre più avvertito come urgente e inevitabile da studiosi, esperti, cittadini e politici lungimiranti (sempre più merce rara)?

Ma questo altro non è che un miraggio o un futuro preferibile a cui aspirare?

Secondo Held sono quattro le caratteristiche fondamentali di uno Stato sovrano contemporaneo: territorialità, controllo dei mezzi di coercizione, strutture impersonali di potere e legittimità.

Ma ad una prima analisi, certamente superficiale, della situazione geo-politica, risalta subito come i primi due punti: territorialità e controllo, siano quanto meno scarsamente rappresentativi del modello socio-politico ed economico che oggi va per la maggiore: il “territorio” si virtualizza in seguito al processo di globalizzazione (anche se quest’ultimo tocca solo marginalmente alcuni aspetti e non tutti “costruttivi” della dinamica identitaria internazionale) e l’urgenza di operare un “controllo” efficace è un argomento sempre più all’ordine del giorno dell’agenda politica di molti Paesi (interessanti al riguardo, per fare un esempio, gli sviluppi di cronaca propri di un capitalismo selvaggio che davamo per tramontato come reazione alla crisi economica alimentata dalla Pandemia).

Per Giddens (A. Giddens, Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, Milano, 1999) i punti che – considerati insieme – ri-definiscono il nuovo stato democratico sono i seguenti: devoluzione, doppia democratizzazione, rinnovamento della sfera pubblica, trasparenza, efficienza amministrativa, meccanismi di democrazia diretta, lo stato come gestore del rischio.

Non è questo il contesto per approfondire un simile argomento, mi preme però accennare alcuni concetti base circa le implicazioni legate al fattore della legittimità rilevato da Held: non è superfluo ribadire che essa ha un rapporto direttamente proporzionale all’utilizzo dei mezzi di comunicazione permesso/concesso all’interno dello Stato. Se non altro perché la legittimità non può e non deve essere imposta con l’uso della forza: “ma in una polis – scrive A. M. Iacono – o in uno Stato che hanno sempre bisogno di una legittimazione all’interno della loro comunità, come può imporsi un potere la cui giustizia esprime l’utile del più forte se non con il consenso? Ammettiamo infatti che si imponga con la violenza. Anche in questo caso perché il potere ottenga che la sua natura di parte sia ritenuta giusta, ha bisogno di un consenso alla violenza o al diritto del più forte. Ci deve cioè essere un momento in cui il potere, per essere giusto, deve accettare simbolicamente il mandato della comunità che lo legittima e che decide di mantenersi una e unita proprio attraverso il riconoscimento di una giustizia che vale per tutti i suoi membri”. Iacono, estende ancora la riflessione: “l’affermazione che la giustizia è l’utile del più forte, non può non basarsi anche sul consenso dei cittadini più deboli. Ma questo consenso ci può essere solo se, in un contesto di cittadini eguali, la tesi di Trasimaco diventa una verità che non può essere mostrata, bensì nascosta. Si tratta di uno spostamento epistemologico. Il consenso infatti dipende dalla condizione che la giustizia, ben lungi dall’essere l’utile del più forte, si mostri come la regola per tutti e per tutto, compreso il potere” (A. M. Iacono (2000), Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli, Milano).

Come si spezza questo circolo, come disvelare la “capacità mimetica” del potere? E soprattutto come può la politica svolgere ancora quel ruolo equilibrante di produzione di un ordine condiviso, di ricerca del bene comune, di armonia sociale, senza cedere ad istanze di militarizzazione della vita civile?

Come può la politica rappresentare ancora il cardine di un’idea di giustizia alternativa alle logiche di dominio e di assolutizzazione del potere, derivanti dall’idea di azione sociale mutuata dalla monopolizzazione della violenza come matrice di “bene” e tutela degli “spazi” normativi posti alla base del contratto sociale?

Dove si annida il problema? È il sistema che non va? Questa “idea di ordine”, questa “difesa degli interessi della comunità” per cui ci battiamo e seminiamo bombe e morte per il mondo è un vessillo logoro o un ideale per cui vale la pena sacrificare delle vite umane?

O sono i politici che rinunciano alla politica, o sono i cittadini che rinunciano alla politica e si emarginano sempre più, “la causa di tutti i mali”? Aiutatemi a capire perché mi rimane sempre più difficile accettare. Aiutatemi a capire come non rimanere inerme e paralizzato davanti alle immagini dell’ennesima guerra incomprensibile.

Fraternity as a goal is the progressive extension from the individual to the family, social, national and international spheres of belief in a common origin and descent of all human beings, from which their inviolable human dignity and fundamental human rights derive. We all belong, in many ways, to the same womb. This, therefore, should lead to a common sense of our human dignity that leaves no one behind (Cardinal Pietro Parolin, Conference on the Encyclical Letter Fratelli tutti, 4 October 2020).

Alessandro Baccani | @aneway | #ChiefHappinessOfficer, #BusinessInnovationDesigner, #SystemsThinker